Articoli di Giovanni Papini

1932


Il Croce e la Croce


Pubblicato su: L'Avvenire d'Italia, Bologna, anno XXXVII, fasc. 54, p. 3
Data: 6 marzo 1932



pag.3




Dobbiamo alla gentile condìscendenza della «Nnova Antologia» il privilegio di poter riprodurre le pagine finali dell'eccezionale saggio critico di Giovanni Papini per la medesima rivista, su la «Storia di Europa» di Benedetto Croce.

   Il Croce sarebbe disposto, bontà sua, a tollerare l'esistenza agonica del Cattolicismo e magari a mantenerlo, a spese del liberalismo, nel museo archeologico della storia, ma non può rassegnarsi al pensiero che molti uomini, d'altra fede, o di nessuna fede, sian tornati o tornino di continuo alla Chiesa di Roma. Egli è talmente immassimato nell'idea fissa che il Cattolicismo è vieto e incadaverito che non sa persuadersi come esso possa ancor conquistare anime vive. Si direbbe che fanno un dispetto personale a lui, talmente sicuro e tranquillo nella sua caverna ghiacciata dell'idealismo postkantiano.
   Non li comprende, i convertiti, eppure vuol giudicarli: anzi si arrischia, con quella sua aria di pontefichino infallibile, a decidere quali siano i motivi interni e veri di tali conversioni. E non v'è da meravigliarsi se non ne azzecca una.
   Quanto ai convertiti dell'epoca romantica furono, secondo lui, anime femminee, fantasiose, estetizzanti e, al solito, poco ortodosse. «Quel loro Cattolicismo troppo abbondava nel senso e nella immaginazione, troppo spasimava per colori, musiche, canti, antiche cattedrali, figure di madonne e di santi, troppo si crogiolava nella voluttà del peccato, della penitenza e del pianto...».

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   lo non posso, qui, ritessere la storia delle conversioni al tempo romantico, che furon moltissime, e anche in paesi, come la Russia, lontani da Roma e dalla sua cultura, ma se il Croce vorrà, tornando sull'argomento, informarsi meglio si accorgerà che il suo giudizio non risponde che ad una parte sola di quelle conversioni. Che nel ritorno al Cattolicismo di alcune nature poetiche c'entrasse anche il lato, diciamo così, patetico ed estetico non è da negarsi e ne abbiamo esempi illustri nello Chateaubriand e nel Brentano. Ma non bisogna fermarsi, trattandosi di religione, soltanto ai casi dei poeti che, per essere più popolari e clamorosi, non sempre sono i più significativi. E del resto c'è, proprio in Italia, l'esempio della conversione d'un poeta che non fu preparata né accompagnata né seguita da quelle cose che il Croce enumera nella sua diagnosi. Non sappiamo con sicurezza la storia interiore della conversione manzoniana ma si può supporre ragionevolmente che fu preparata da serie riflessioni, provocata da una scossa emotiva, giustificata e rassodata da meditazioni e ricerche dottrinali e storiche. E il caso del Manzoni è, in quel tempo, tutt'altro che unico: Adamo Miiller fu portato al Cattolicismo da ragioni filosofiche; Alberto Haller attraverso la filosofia politica; Goerres passò dal sincretismo simbolico alla Chiesa in forza d'una sua filosofia della storia; lo Hurter fu convertito dall'attento studio della storia, specie medievale; il Gratry per considerazioni puramente teoriche e quasi scientifiche; Donoso Cortes dalle sue esperienze politiche. E se ne potrebbero citare altri a dozzine, di convertiti che non furon sedotti dalle immagini delle Madonne, né dal pianto, né dalla bellezza delle cattedrali e che furon sempre schiettamente fedeli al dogma e al Papa. Non bisogna giudicare i romantici cattolici attraverso uno Stolberg o un Werner e anche nei casi di questo genere è onesto avvertire che a tali conversioni non contribuirono soltanto motivi emozionali ed artistici. A uno storico si ha il diritto di chiedere il pieno rispetto ai fatti storicamente sicuri: a tutti, non a qualcuno scelto arbitrariamente per comodità d'una tesi o sfogo di malumore.
   Ma le conversioni che maggiormente indispettiscono il Croce son quelle recenti, quelle, cioè, di cui parla nell'epilogo e che son avvenute, perciò, durante o dopo la guerra: «il Cattolicismo, che già aveva tentato di ripigliare forza attraverso l'irrazionalismo e il misticismo, ha accolto e viene accogliendo, in gran numero, anime deboli o indebolite e torbidi e malfidi avventurieri dello spirito». «Comunque, il motivo spirituale che ha spinto i migliori di costoro a rifugiarsi o a tornare al Cattolicismo... è stato non altro che il bisogno, nel tumulto delle idee, e dei sentimenti cozzanti e cangevoli, di una verità fissa e di una regola imposta: ossia una sfiducia e una rinunzia, una debolezza e un puerile spavento innanzi al concetto dell'assolutezza e relatività insieme di ogni verità e all'esigenza della continua critica e autocritica onde la verità a ogni istante si accresce e si rinnova. Ma un ideale morale non può conformarsi alle occorrenze dei deboli, degli sfiduciati e dei paurosi».

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   E qui cercherò davvero d'esser cristiano, cioè disposto al perdono, perché le cose si fanno particolarmente gravi. Sentenziare senza ombra di prova, senza vera conoscenza degli accusati, senza un'idea precisa di quel che sia lo stato d'animo dei cristiani, che tutti i convertiti ultimi sono, senza eccezione, o vigliacchi o avventurieri è più da libello che da libro che s'intitola storia. Ma vorrei, sinceramente, che il Croce conoscesse più davvicino o, meglio, per esperienza propria, quale sia la condizione spirituale del cattolico. L'idea che la conversione dia senz'altro al convertito la pace assoluta, la sicurezza, la certezza e il riposo perpetuo d'ogni pena e lotta è un'idea che può sorgere soltanto in colui che non è mai stato veramente cristiano o non conosce, neppur di vista, le confidenze e le confessioni dei cristiani sinceri. Sappia il Croce che in costoro risorgono, benché sempre sciolti e vinti, dubbi sulla fondatezza della lor fede; dubbi sulla capacità di giungere alla perfetta salvezza; insofferente dinanzi alla grossolanità o tiepidezza della maggior parte dei loro nuovi compagni; periodi tristi d'aridità; inquietudini e tentazioni d'ogni sorta. Altro che tranquillità e quiete a ristoro della presunta debolezza! Il cristiano sul serio è in perpetua guerra e tormento e se qualcuno dice di non aver mai avuto dubbi e travagli stia sicuro il Croce che si tratta d'un cristiano torpido e tardo oppure, in quel momento, non sincero.

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   Il Cattolicismo sarebbe un asilo contro le agitazioni dello spirito e la paura? Ma non ha mai pensato, il Croce, che proprio il Cristianesimo fa sorgere paure tali che soltanto i forti le possono sopportare? Timore d'errare, sia nel pensiero che nella pratica; timore di perdere la Grazia; timore di non poter giungere alla beatitudine; timore dell'autorità, che giustamente vigila più dappresso i nuovi venuti; timore, infine, della giustizia d'Iddio. E che razza di paurosi sarebbero mai costoro che, per sfuggire alla paura dell'incertezza o dell'autocritica, si precipitano in un abisso di paure?
   Con questo non voglio dire che il cristiano sia, sempre, una creatura tremebonda e dilaniata: vi sono remissioni dolcissime, conforti ineffabili, entusiasmi fecondi. Ma il Croce, che si compiace spesso di parlare d'una assolutezza ch'è relativa, di un oggetto ch'è pur soggetto, d'un errore ch'è insieme verità, dovrebbe, meglio d'altri, arrivare a capire una sicurezza ch'è inquietudine, un riposo ch'è battaglia, una protezione ch'è rischio, una pace ch'è timore. E tale, se ne rammenti, è lo stato d'animo dei cattolici il cui Cattolicismo non consiste soltanto nell'andare alla Messa tutte le domeniche e nel confessarsi per Pasqua.

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   Ma chi sono, poi, questi paurosi, questi deboli, questi avventurieri che si son convertiti negli ultimi anni? Son molti, certo, ma badi che i più tra i convertiti ora viventi e operanti (da Claudel a Maritain, da Gemelli a Giuliotti) si son convertiti prima della guerra: suppongo, dunque, che non voglia parlar di loro.
   Tra quelli più noti, degli ultimi venuti, si può ricordare, credo, un francese: Jacques Rivière; un inglese: G. K. Chesterton; un tedesco: Peter Wust; e un italiano: colui che scrive queste pagine. Non son tutti, ma rappresentano, insomma, varie classi di spiriti e i maggiori paesi colti d'Europa.
   Il Rivière, veramente, fin dal 1907 sentì il bisogno della fede e si comunicò per la prima volta al Natale del 1913. Ma solo durante la sua prigionia in Germania poté ricercare ed elaborare le ragioni della sua fede e se ne posson vedere i resultati in due libri pubblicati dopo la sua morte: A la trace de Dieu (1925); De la sincerité envers soi-méme (1925). È difficile trovare uno spirito più fine, autocritico e leale di quello del Rivière: sottile, inquieto, severo verso sé stesso, entusiasta e nello stesso tempo guardingo e sorvegliato: cervello d'intellettuale ardente e cuore d'artista. Si leggano le sue lettere e i suoi libri: non v'è traccia alcuna di quella paura, di quella debolezza, di quell'aspirazione a una requie vile che secondo il Croce sono i maggiori moventi d'una conversione.
   Anche il Chesterton si poteva dir cattolico, come forma mentis, fin da quando pubblicò Heretics (1905) e soprattutto Ortkodozy (1908) ma siccome non è entrato ufficialmente nella Chiesa fino al 1922 può esser considerato, a scelta, tra i «deboli» o tra gli «avventurieri». Basta, però, leggere un sol volume suo per accorgersi che non può esser messo né tra gli uni né tra gli altri. Il Chesterton, anche quando par che faccia il chiassone e il forzatore, è sempre profondamente serio. È venuto alla Chiesa per un bisogno intellettuale d'armonia intera e coerente non già per colpo di fulmine o per vaghezza dei santi dipinti o delle pompe del culto. E non è entrato perché avesse paura delle ricerche e novità moderne, per paradossali o estreme che fossero, ché anzi il suo spirito pronto e ardito ci sguazzerebbe dentro meglio che nell'ortodossia. Ma ha visto, dopo lunghe esperienze e meditazioni, che soltanto nel Cattolicismo tutte le attività migliori dell'anima e del corpo trovano la piena loro soddisfazione e conclude che «l'ortodossia non è soltanto, come si dice spesso, la sola custode di una moralità e dell'ordine, ma anche l'unica salvaguardia logica della libertà, dell'innovazione e del progresso». Ecco dunque un uomo moderno, coltissimo, che non si fa cattolico per paura della libertà o per nostalgia del passato. E in Chesterton, nella vita e nell'opera, altro che debolezza! Pochi uomini sono al mondo, oggi, che manifestano una tale vivacità d'intelletto, una vitalità così piena, lieta, lussureggiante. In questo inglese nato nell'epoca vittoriana par che sia risorto qualcosa della sanguigna e sprizzante rigogliosità degli elisabettiani.
   Peter Wust, nato cattolico, s'era gettato ai primi del secolo nell'idealismo e nello scetticismo. Una parola che udì, il 4 ottobre 1918, dal famoso Troeltsch — si badi, protestante — lo indusse a riesaminare i fondamenti della filosofia moderna. E quando uscì, nel 1920, il suo primo libro importante (Die Auferstchung der Metaphysik) era passato dall'idealismo al Cattolicismo e, si noti, per ragioni prevalentemente speculative.
   Si posson notare, in lui, le influenze di due poeti, il Blake e il Claudel, ma la via percorsa per tornare alla fede — dopo il passaggio attraverso quella che il Croce ritiene il vero crisma delle intelligenze moderne, cioè l'idealismo — è filosofica: dall'immanenza alla trascendenza, dall'io a Dio. E qualunque sia l'opinione che si possa avere del suo sistema è certo che si tratta d'un pensatore vigoroso, preparato, coltissimo e ancora nella pienezza delle forze (è nato nel 1884). E a questo proposito converrà osservare che questi cosiddetti «deboli» si convertono tutti nella gioventù o nella vigorosa virilità: Rivière a 27 anni; Chesterton a 34; Peter Wust a 36. Ed io cominciai a scriver la Storia di Cristo nel 1919, a 38 anni.

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   Debbo per forza parlar di me e anche se il Croce, che mi reputa esibizionista, non ci crederà, a malincuore. Ma tra coloro ch'egli definisce «torbidi e malfidi avventurieri dello spirito» ha voluto certamente alludere anche a me e, forse, principalmente a me. E vuol sapere il Croce come io sono stato condotto al Cattolicismo? Non ho mai voluto scrivere, benché ripetutamente sollecitato, la storia del mio ritorno a Cristo ma per dimostrare al Croce ch'io non mi sento offeso dai suoi acerbi e talvolta ingiusti giudizi voglio fare un'eccezione per lui. Sarò, naturalmente, brevissimo. Durante la guerra, e specie negli ultimi tempi, fui profondamente rattristato dallo spettacolo di tante rovine e di tanti dolori. Di lettura in lettura io venni risospinto alla lettura del Vangelo, che avevo letto più volte ma sempre con spirito diffidente e ostile. E meditando sul Vangelo, e specie sul Sermone del Monte, venni a pensare che l'unica salvezza per gli uomini, e una salvaguardia sicura contro il ritorno degli orrori presenti, non poteva essere che un mutamento radicale dell'anime: il passaggio, cioè, dalla ferinità alla santità, dall'odio per il nemico (e perfin per l'amico) all'amore anche per il nemico. Il Cristianesimo mi apparve dunque, in un primo tempo, come un rimedio ai mali dell'umanità ma, proseguendo nelle mie solitarie e ansiose meditazioni, venni a persuadermi che il Cristo, maestro d'una morale così opposta alla natura degli uomini, non poteva essere stato soltanto uomo ma Dio. E a questo punto intervenne, io credo, l'opera segreta ma infallibile della Grazia. E tanto era forte in me l'amore per quel divino maestro dell'amore ch'io decisi di far qualcosa, perché le sue parole giungessero anche a quelli che non le conoscono o non le intendono o le sprezzano. E incominciai a scrivere, solo, in campagna, non spinto da brame di acquietamento o di fortuna ma dal sincero bisogno di giovare a qualche mio fratello, la Storia di Cristo. E finita che fu mi si presentò l'esigenza di appartenere alla società fondata da Cristo. E tra le Chiese innumerevoli che si dicono sue fedeli interpreti scelsi, non senza contrasti interni e qualche repugnanza ora superata, quella Cattolica, sia perché essa rappresenta veramente il tronco maestro dell'albero piantato da Gesù ma anche perché, a dispetto delle debolezze e degli errori umani di tanti suoi figli, essa è quella, a parer mio, che ha offerto all'uomo le condizioni più perfette per una integrale sublimazione di tutto l'esser suo e perché in essa soltanto mi parve che fiorisse abbondante e splendente il tipo d'eroe che ritengo il più alto: il Santo.
   Non dico che la via da me, senza volere, seguita, sia la migliore né tanto meno ch'io sia diventato un perfetto cristiano: ci vuol altro! Ma il Croce, se vuol credere a questa succinta ma sincera confessione, si persuaderà ch'io non fui trascinato a convertirmi né da una qualsiasi debolezza — avevo 38 anni né temevo le fatiche del pensiero e dello studio — né dal desiderio di rifugiarmi in un asilo comodo — ché anzi l'opera più difficile e dolorosa, per il cristiano, comincia proprio dopo la conversione — né per ignobili smanie di notorietà, ché nel 1921 già ero noto abbastanza in Italia e fuori. Dopo la conversione ho corroborato e confortato la mia fede con nuove ragioni, specie d'ordine storico e logico, ma resta il fatto che il primo impulso mi venne da un prepotente desiderio di servire agli uomini, di manifestar loro, nel modo che meglio potevo, il mio amore per loro. Se questi son sentimenti che possano muovere e infiammare un «torbido e malfido avventuriere dello spirito» lascio giudicare ai galantuomini e, prima che agli altri, al Croce medesimo. Il quale dovrà convenire, poi, che un «avventuriere» il quale resta nella stessa casa per dodici anni di fila e non ha nessuna voglia di lasciarla ma sol di rendersene più degno è un ben singolare «avventuriere».


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